Mercoledì Freudiani: febbraio 2022

lunedì 28 febbraio 2022

LA PAURA DEL CAMBIAMENTO

Ci sono persone che non possono fare a meno dei cambiamenti, altre che ne sono terrorizzate.
Nel primo caso spesso ci troviamo di fronte ad una forte inquietudine interiore che porta l’individuo a credere erroneamente che, modificando ciò che lo circonda, egli potrà finalmente trovare la serenità e la pace interiore.
Il secondo caso, invece, riguarda persone che costruiscono la propria sicurezza sull’abitudine, i piani prestabiliti, la ripetitività dei gesti.
Costoro temono che qualsiasi cambiamento possa destabilizzare il proprio equilibrio e, raramente, intuiscono quanto questo comportamento li renda di fatto ancora più fragili, fisicamente pigri e mentalmente annoiati.
Quando tutto è conosciuto e prevedibile, quando ogni giorno è uguale al precedente, quando tutto è sotto controllo è facile sentirsi sicuri e protetti. Si ha l’impressione di tenere lontani i pericoli quando, in realtà, si sta aprendo la porta principale al più pericoloso dei nemici: il tedio, l’inerzia subdola e ingannatrice, che uccide l’entusiasmo e spegne la creatività.
Spesso è proprio la tendenza ad evitare le sfide e ad allontanare ogni fatica la principale causa di malesseri, stati depressivi e nevrosi.

Affrontare difficoltà e superare ostacoli serve, acutizza l’ingegno. Una vita troppo facile e una strada spianata mettono a riposo il cervello.

Come si può combattere la paura del nuovo ed evitare di cadere in questa trappola mortale?
1. Innanzitutto, prendere consapevolezza che l’ansia che si prova è in realtà una tensione positiva che potrà tradursi in energia e vitalità intellettuale.
2. Accelerare il processo decisionale in modo da spezzare la catena degli indugi e dei ripensamenti (a questo proposito vi consiglio la lettura di un altro dei miei articoli). Non c’è cosa più sbagliata, infatti, del pensare in maniera insistente alle conseguenze future e al modo per affrontarle.
Nella maggior parte dei casi gli eventi si muovono in maniera imprevista e subentrano variabili non calcolate, per cui è inutile perdere troppo tempo nel formulare ipotesi e contro-ipotesi che hanno come unico effetto quello di affaticare la mente e aumentare le preoccupazioni.
3. Cominciare a vivere la nuova situazione appena se ne ha l’occasione. Ad esempio se si decide di cominciare un nuovo lavoro non aspettare la data di inizio ma proporre degli incontri operativi preliminari. Saranno sicuramente apprezzati dai superiori e in più permetteranno di toccare con mano le attività e ridimensionare le ansie generate dall’immaginazione.
4. Pensare che, anche qualora il cambiamento dovesse rivelarsi negativo, sarà stata comunque un’occasione di crescita, una prova superata che, se non altro, avrà riattivato i sensi e risvegliato la mente.
5. Provare stima verso se stessi: ogni decisione che comporta l'allontanamento da uno stato di equilibrio è un atto di coraggio che rende le persone più forti, migliori.

La brama di comodità diventa una domatrice, e con rampino e frusta fa dei vostri desideri delle marionette. (…) In verità la brama di comodità uccide la passione dell’anima, e va poi ghignando al suo funerale (K. Gibran).

sabato 26 febbraio 2022

L'ARTE DI THEODORE GERICAULT

Géricault è un artista che io amo molto, nel periodo in cui disegnavo con il carboncino ho preso moltissimo spunto dalle sue opere e dal suo stile.
Di lui si parla poco (io stessa l’ho scoperto per caso, sfogliando un libro d’arte), forse a causa della sua morte molto precoce (1791-1824), forse per la natura del tema prevalentemente trattato nei suoi dipinti: il mondo della medicina sia dal punto di vista scientifico (e per certi versi macabro) sia dal punto di vista psichiatrico.

Il suo massimo capolavoro è sicuramente La zattera della “Medusa” (1818-1819), un quadro che prende spunto da un fatto di cronaca successo nel 1816: l'affondamento della nave francese Meduse al largo dell’Africa Occidentale. Gli occupanti della nave, circa 150 persone, si imbarcano su una malcerta zattera e affrontano giorni e giorni di navigazione fra terribili disagi, un'esperienza dolorosa che condusse alla morte della gran parte di loro. Alla fine i superstiti furono solo una quindicina, che sopravvissero alla disperazione, alla fame e alla sete anche grazie ad episodi di cannibalismo.
In ogni punto del quadro regnano i due sentimenti della speranza e della disperazione, due forze opposte che lottano drammaticamente tra di loro e che, nei punti di maggiore intensità, danno forma a due nitide piramidi: la prima che parte dall’immagine dell'uomo morto in basso a sinistra ed ha il vertice nell'uomo di spalle che sta agitando un panno in cerca di aiuto e la seconda che parte dalle onde minacciose del mare per giungere all'albero che sorregge la vela.
Per realizzare questo quadro, Géricault affitta uno studio vicino all'ospedale, ed esamina dal vivo malati, moribondi, cadaveri, copiando persino pezzi anatomici (teste, braccia, piedi) da utilizzare per indicare il cannibalismo.
A fare da modelli sceglie alcuni tra i propri amici (uno, in particolare, con l'itterizia, scelto come perfetto per il ruolo), tra cui l'amico pittore Eugene Delacroix (che è l'uomo morto in primo piano a sinistra).

Nel 1822 l’artista si ammala di una forma depressiva che lo porta a rivolgersi al giovane e già noto alienista dottor Étienne -Jean Georget che, a sua volta, lo presenta al celebre medico e scienziato Jean-Étienne Dominique Esquirol. 
E’ la frequentazione di questi due pionieri della psichiatria moderna (furono i primi scienziati a denunciare l’emarginazione dei malati mentali), che porta Géricault a realizzare dal vivo i dieci ritratti di alienati monomaniacali (cinque dei quali andati dispersi). Un’indagine scientifica della follia attraverso la pittura, che costituisce una novità assoluta nella storia dell’arte.
Si tratta di quadri di straordinaria bellezza, personaggi difficili da dimenticare, che colpiscono per le espressioni contrite, i volti segnati dalla sofferenza, gli occhi cerchiati e rivolti verso un unico obiettivo: l’oggetto della loro ossessione.
Géricault, attraverso la pittura, studia in profondità l'individuo e i pensieri più sconosciuti dell’animo umano per poi esprimerli con un realismo e una precisione tali da rendere quasi possibile la diagnosi.

Inquieti e drammatici restano, a parer mio, tra i ritratti più belli mai realizzati.

Da sinistra in senso orario: mania del rapimento di bambini, la cleptomania e l'assassinio, l'invidia e la mania del comando militare. In questa rappresentazione manca la mania del gioco.

mercoledì 23 febbraio 2022

L'AMICIZIA TRA DONNE

L’amicizia maschile è un legame per certi versi meno intimo ma, generalmente, più solido e duraturo di quello femminile.
L’uomo vanta spesso un discreto numero di amici storici, con cui condivide prevalentemente momenti ludici, sociali o professionali: la partita a calcetto, la birra al pub, le idee di business.
Si tratta di relazioni spensierate e genuine dove regnano, soprattutto, l’allegria e il divertimento.
Per le donne non è quasi mai così.

Da ragazzina ero fermamente convinta della superiorità delle amicizie femminili, per la complessità di rapporto che spesso le caratterizzava, così
carico di condivisione, complicità, unione.
In particolare, ritenevo che le donne avessero la straordinaria capacità di vivere con profondità ed empatia il sentimento, contrariamente all’uomo, in grado solo di vederne l’aspetto più gioviale e superficiale.
Crescendo, però, sono stata costretta a rivedere le mie idee, ad ammirare la fedeltà e la dedizione degli uomini verso i propri compagni e a rivalutare la qualtà dei loro legami di amicizia, capaci di resistere al tempo e ai cambiamenti.
Non è raro vedere mariti dribblare gli impegni famigliari pur di non rinunciare alla serata con gli amici.
Gli uomini sanno che l’amicizia è un tassello fondamentale del loro equilibrio e lo difendono, sanno che quel lato creativo e istrionico della loro personalità, che emerge all’interno del gruppo, morirebbe se perdessero quei momenti di libertà e spensieratezza.
La donna, invece, superata una certa età allenta pian piano ogni legame di amicizia per poi ripescarlo all’occorrenza, per lenire qualche dolore o condividere qualche frustrazione.
Le amiche si riducono così ad un’ancora di salvezza per superare i momenti critici, come una storia finita o una vita famigliare divenuta insoddisfacente.
Quelli che un tempo erano legami autentici e preziosi si trasformano in relazioni di mera utilità, destinate a colmare vuoti momentanei e a risorgere o scomparire a seconda dei bisogni, degli umori e degli accadimenti,
Si tratta di dinamiche che osservo ogni giorno e che tendono ad intensificarsi con il passare degli anni.

Fortunatamente i miei legami più importanti si sono rivelati un po’ più resistenti della media. A dire il vero sono soprattutto io quella che spinge per organizzare incontri e cene, quella che predica la difesa degli spazi di intimità tra donne.
Più passa il tempo e più mi trovo ad affrontare vere e proprie battaglie: l’inerzia e i fidanzati sono i nemici più duri da combattere.
Per fortuna però, quando si riesce ad organizzare, il commento è unanime: “sono davvero rigeneranti queste serate, fanno bene all’anima”. E allora mi dico che ne è valsa la pena.
Trascorrere il tempo con le amiche più intime è terapeutico, addolcisce il cuore e migliora la vita. Quanta stupidità ci spinge a dimenticarlo!
Circondata da quell'alone di affetto, per una donna è più facile ritrovare se stessa, abbandonare per qualche ora il proprio ruolo di fidanzata, moglie o madre e condividere sogni e paure, sicura che non resteranno inascoltati.

Una delle mie più care amiche, dopo anni di appuntamenti mancati e scuse patetiche, un giorno, messa alle strette, mi ha confessato di non condividere la mia idea di amicizia: secondo il suo punto di vista, con il passare del tempo, un rapporto tra amiche doveva evolvere, coinvolgere i partner e, più avanti, le rispettive famiglie. Doveva, insomma, diventare più maturo. Secondo lei, alla nostra età, le ore passate a chiacchierare davanti a un caffé suonavano ridicole ed infantili.
Da quel giorno non ci siamo più sentite. A lei dedico queste parole di Kahlin Gibran, sperando che un giorno possa comprenderne, “sentirne” il significato:
L’amico è il vostro bisogno corrisposto.
E’ il campo che seminate con amore e mietete rendendo grazie.
E’ la vostra anima e il vostro focolare;
Perché a lui giungete affamati e in cerca di pace.

domenica 20 febbraio 2022

IL GRANDE FRATELLO SANREMESE

Non sono mai stata una grande fan di Sanremo. Ogni anno una rapida sbirciatina e la solita domanda: "quando si decideranno a migliorare il format, quando impareranno a valorizzare la musica?".
Poi, quest'anno, la sorpresa: "Sanremo, record di ascolti!".
Mi sintonizzo e subito capisco come sono riusciti a portare la musica nelle case: veicolandola con un programma spazzatura, annegandola in un mare di quel trash tanto amato da noi italiani.
A cominciare dalla conduttrice, un'Antonella Clerici impacciata, sgraziata e fuori forma, che non perde occasione per mettere in piazza le proprie emozioni. Cosa c'è di meglio del godersi il triste spettacolo di una persona visibilmente sotto pressione e costretta ad indossare abiti troppo stretti che la fanno apparire ancora più ridicola?
Per non parlare del vergognoso brano cantato da Emanuele Filiberto (dopo questa buffonata canora, il minimo sarebbe rispedirlo a Ginevra!) e della canzone nonsense, inspiegabilmente ancora in gara, di Irene Fornaciari (due sole frasi ripetute fino all'esaurimento nervoso. Povero Zucchero!).
E, stasera, tanto per soddisfare un po' di morbosa curiosità, un estratto del chiacchierato musical della sempre più patetica Lorella Cuccarini. Casualmente si è scelto di portare sul palco dell'Ariston proprio la parte dove la non più giovane ballerina appare completamente nuda, "coperta" solo da una chitarra.
E poi gli amatissimi aforismi di Cassano, l'interminabile monologo di Lippi, l'ipocrisia del "caso Morgan" (gli hanno levato cinque minuti di Sanremo per dargli un'intera puntata di Porta a Porta!)...Ma meno male che c'è Carla Bruni...Se si parla di te il problema non c’è...

giovedì 17 febbraio 2022

LA BELLEZZA DELLE EMOTICON

La punteggiatura è sempre stata un tasto dolente per gli alunni di tutte le generazioni.
Basta aprire un qualsiasi libro di grammatica per scoprire che a quei semplici segni corrispondono un'infinità di usi e di regole noiose: il punto corrisponde a una pausa prolungata, la virgola indica una pausa breve, il punto e virgola serve a spezzare un periodo troppo lungo, i due punti introducono una spiegazione o un elenco. E così via.
Mi ricordo ancora i segni rossi della maestra. Era impossibile scrivere un tema perfetto: una virgola in meno o di troppo c'era sempre!

Poi è arrivata la tanto discussa "generazione web", quella che dialoga con 20 parole per intenderci, che ha saputo reinterpretare in maniera squisitamente creativa la tanto odiata punteggiatura.
Grazie a loro il serioso punto, l'indomita virgola, l'incompreso punto e virgola e gli inseparabili due punti hanno pian piano preso vita trasformandosi in simpatiche faccine dallo straordinario potere comunicativo.
Basta un sorrisino :-) a dare un tocco di umorismo ad una frase, un'occhiolino ;-) a sdrammatizzarla, una lacrimuccia
:-'( ad aggiungere un po' di sentimento. Personalmente le trovo deliziose.
Qualcuno potrà obiettare che niente come la punteggiatura tradizionale è in grado di imprimere il ritmo e modulare il tono di un discorso in maniera elegante e armoniosa.
E' fuori dubbio: il linguaggio delle faccine non ha (e non potrà mai) sostituire la sintassi classica. Ha semplicemente aggiunto un po' di colore al nostro bagaglio espressivo. E' un nuovo modo di comunicare.
E' l'idioma del cuore, della fantasia e dell'assenza di regole. L'idioma di chi, di fronte alla celebre frase di Edgar Allan Poe "Lo scrittore che trascura la punteggiatura è destinato a non essere ben compreso", ha trovato un modo originale per dargli ragione.

mercoledì 16 febbraio 2022

CONSIGLI POPOLARI ANTI-ANSIA

Ci sono due proverbi popolari che costituiscono per me una sorta di salvavita, due frasi che nella loro semplicità racchiudono la preziosa saggezza che nasce dall'esperienza.

"TOLTO IL DENTE, TOLTO IL DOLORE" è un consiglio molto savio, da non confondere assolutamente con la raccomandazione di agire in fretta, istintivamente.
Significa, invece, evitare di permanere a lungo in uno stato di indecisione.
Non c'è cosa più dannosa del crogiolarsi nei dubbi: la mente si sovraccarica, si confonde e perde di vista gli aspetti che contano.
Come si può evitare che ciò accada?
Fondamentalmente stabilendo un tempo massimo per riflettere e portare a termine tutte le azioni necessarie per compiere la scelta: dalla raccolta di informazioni, al confronto con gli altri, all'ascolto del proprio istinto, ...
E quando la scadenza si avvicina, quando la paura di prendere la decisione sbagliata si fa sentire e la tentazione di temporeggiare diventa forte, ecco che il vecchio detto può venire in aiuto, per dare quella spinta, quello stimolo ad agire ora, subito, senza più ripensamenti.

"DAI TEMPO AL TEMPO (e tutto si risolverà)" è, invece, una sacrosanta verità.
A tutti noi sarà capitato di affliggerci nella vita per fatti, imprevisti o cambiamenti che, nel momento in cui si verificavano, sembrano privi di soluzione.
Allo stesso modo ciascuno di noi avrà sicuramente provato a ripensare agli stessi problemi dopo qualche tempo, quando ormai la cosa era "acqua passata".
Quante volte il ricordo dell'ansia e della preoccupazione provata ci appare ingiustificato, quasi ridicolo? Quante volte ripensiamo con il sorriso ad episodi che, a suo tempo, ci avevano angosciato?
Il più delle volte arriviamo addirittura a trasformarli in aneddoti da raccontare agli amici!
A me è successo talmente tante volte che mi risulta impossibile parlare di casualità. E' ormai una regola e, in quanto tale, non posso più permettermi di scordarla.
Pertanto, ogni volta che provo agitazione per qualche intoppo o paura verso qualche incognita, mi dico: "vuoi davvero un altro pretesto per burlarti di te stessa in futuro? Non fare la ridicola! Tanto lo sai che prima o poi tutto si aggiusterà!".

martedì 15 febbraio 2022

LA MANCANZA DI FIDUCIA (l'incapacità di affidarsi agli altri)

La fiducia negli altri è un sentimento che si consolida già nei primissimi mesi di vita del bambino, grazie ad un meccanismo di bisogni infantili puntualmente e amorevolmente soddisfatti. Avvolto dalle premure materne il bambino impara che l'ambiente che lo circonda è gentile e amichevole e sviluppa un istinto di apertura fiduciosa verso il mondo esterno.

In una serie di esperimenti, piccoli di scimmia venivano messi a contatto con due “madri fantoccio”: una fatta di freddo metallo alla quale era attaccato un biberon e un’altra senza biberon, ma coperta di una stoffa morbida, spugnosa e pelosa. Gli studiosi notarono che le piccole scimmie trascorrevano fino a diciotto ore al giorno attaccate alle madri "pelose" anche se erano nutrite esclusivamente dalla madri “allattanti ...” (Coniugi Harlow, 1958)


N.B. Ho deciso di pubblicare questo video in quanto toccante testimonianza di un tema che mi sta molto a cuore. Tuttavia considero riprovevole il modo in cui questo esperimento è stato condotto, motivo per cui eticamente mi dissocio.

La relazione con la madre fornisce al bambino una “base sicura” dalla quale egli può allontanarsi per esplorare il mondo ma subito farvi ritorno, in caso di minaccia, per ricevere conforto e sicurezza. Lo sviluppo della personalità risente moltissimo della possibilità di aver sperimentato o meno una solida “base sicura”; soltanto nel primo caso il bambino riceverà i mezzi necessari per accrescere la fiducia in sé stesso e per dare, a propria volta, sostegno e fiducia agli altri.

Ci sono, invece, situazioni capaci di compromettere lo sviluppo emotivo e le relazioni affettive di un piccolo. Come, ad esempio, un disturbo depressivo nella madre.
Una donna depressa, infatti, tende generalmente a distaccarsi da tutto quello che le sta attorno, completamente assorbita dai problemi, dai sensi di colpa e della propria infelicità. Si tratta di un fardello talmente pesante e difficile da gestire che, inevitabilmente, tutto il resto passa in secondo piano, compresa la cosa più preziosa per una madre: il proprio figlio.
Una mamma depressa ha, generalmente, un atteggiamento meno affettuoso e comunicativo verso il proprio bambino ed è meno ricettiva verso i segnali che il piccolo le trasmette.
Ci sono madri che, nonostante la malattia, riescono ad occuparsi ugualmente dei propri figli. Difficilmente però, in quanto vittime del proprio malessere, riescono a trovare l'energia per trasmettere loro stimoli più complessi: sensoriali, emotivi e giocosi.
Conseguenza diretta di questa mancanza di rassicurazione e di interazione è la frustrazione del bisogno di attaccamento del neonato, che non di rado provoca disturbi della personalità (tra cui la mancanza di autonomia e di autostima) nell'età adulta.
La convivenza con una figura materna depressa ha effetti devastanti anche se coinvolge il bambino in un'età maggiore.
In questo caso, infatti, la perdita improvvisa di un punto di riferimento fino a quel momento stabile può provocare un traumatizzante crollo delle certezze.

Nel primo caso il bambino, abituato ad essere respinto ogniqualvolta cercava conforto e protezione nella madre, tenderà a costruire le proprie esperienze facendo esclusivamente affidamento su se stesso, ad evitare gli attaccamenti per convinzione del rifiuto ed a ricercare l’autosufficienza anche sul piano emotivo.
Nel secondo caso il bambino, avendo subito il crollo improvviso della propria "base sicura", risulterà più incline all'ansia da abbandono e sarà incapace di gestire distacchi prolungati, vivrà nella convinzione di non essere amabile e avrà come emozione dominante il senso di colpa.

All’inizio della vita il bisogno biologico legato all’alimentazione è presente insieme a un altro bisogno, anch’esso fondamentale, quello di essere amati, nutriti d’amore, di essere desiderati, voluti, accettati per quello che si è (John Bowlby).

sabato 12 febbraio 2022

EREDITA' DIFFICILI DA CANCELLARE

Ho ricevuto un'educazione piuttosto rigida, soprattutto da mio padre: tante aspettative, poca pazienza e zero comprensione. La sua regola era: "i miei figli dovranno imparare a cavarsela da soli perchè il mondo è delle persone sveglie!".
Vederci in difficoltà o percepire una nostra insicurezza lo infastidiva. Non sopportava di vederci fragili.
Quando doveva insegnarci qualcosa lo faceva con l'insofferenza e il nervosismo di chi dentro di sè pensa: "Non potrebbero imparare da soli? Sarà mica così difficile!".
La cosa peggiore è che, se ogni errore o indecisione provocava il suo scontento, nessun successo riusciva a meritarsi un suo cenno di approvazione. Sicuramente in tanti momenti è stato fiero di noi ma non ce lo ha mai dimostrato: non un complimento, non un gesto d'incoraggiamento o d'affetto.
Crescere con un padre duro e severo è tutt'altro che facile, un bel bagaglio di insicurezza e sensi di colpa è il minimo che si possa ereditare.
La cosa più difficile, però, è riuscire a liberarsi di quel condizionamento quando si raggiunge l'età adulta. Anche se non lo vuoi, anche se è l'ultimo del geni che vorresti avere nel tuo DNA, ormai è radicato dentro di te.

Me ne accorgo ogni volta che intraprendo qualcosa di nuovo e mi impongo tempi di apprendimento brevissimi, risultati superiori alla media e nessuna debolezza. Non mi aiuta confrontami con gli altri, penso che il mio dovere è fare meglio. Non so quante volte questo approccio ridicolo mi ha privato del piacere e del divertimento di fare le cose!
Quel che è peggio è che, spesso, mi trovo a provare intollerenza anche verso l'incapacità e la vulnerabilità altrui: quando vedo persone carenti, titubanti o arrendevoli la prima sensazione che provo è di fastidio.
Ogni volta che dietro una difficoltà intravedo mancanza di coraggio o di grinta divento impietosa.

E' evidente che sto facendo l'ultima cosa che avrei mai pensato di fare: perpetuare il comportamento per cui ho sofferto di più nella mia vita.
Pur riconoscendone la bassezza, pur sapendo il male che può provocare, faccio fatica a liberarmene.
So di essere a metà di un lungo percorso: è stato difficile riconoscere questo atteggiamento, ammettere il dolore che provocava a me stessa ed agli altri e, ancora più penoso, ricondurlo al mio passato rivivendo i dolori della mia infanzia.
Ora si tratta di raggiungere l'ultimo importante obiettivo: indebolire fino a distruggere questo gene per imparare a liberare amore, fiducia e compassione.
Lo devo alle persone che amo, ai figli che avrò, a me stessa.
 
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